“Ho fatto delle foto. Ho fotografato invece di parlare.
Ho fotografato per non dimenticare.
Per non smettere di guardare.”
Daniel Pennac
La quarta uscita di Phototandem è stata organizzata in un sabato romano assolato e molto caldo di fine maggio. Per la prima volta abbiamo deciso di non portare in giro i ragazzi per la città, ma di fargli raccontare il campo dove vivono dietro la stazione Tiburtina, a Roma. Un enorme parcheggio tra due edifici abbandonati, in mezzo al nulla e con pochissimi alberi a riparare dal sole romano. In questo posto i ragazzi, insieme ai volontari del Baobab, hanno piantato una cinquantina di tende che sono state regalate dai romani. Il campo non ha acqua corrente, non ha elettricità né bagni.
Per la quasi tutti noi fotografi questa è la prima volta che visitiamo il nuovo campo. Troviamo alcuni volontari del Baobab, del presidio fisso, che spazzano tra le tende con l’aiuto dei migranti, alcuni che insegnano l’italiano, altri che fanno staffette per andare in macchina a prendere taniche dell’acqua.
Cominciamo a girare per il campo parlando con gli ospiti e invitandoli a fotografare, per guardare con i loro occhi un posto precario e allo stesso tempo ormai fin troppo familiare. Gli diamo le nostre macchine (alcune in pellicola, altre digitali) gli spieghiamo come impugnarle, come zoommare, come scattare, iniziano a scattare, a passarsele. Alcuni di noi riescono a fare un vero Tandem con i ragazzi, altri gestiscono tre-quattro migranti che si passano la macchina curiosi del funzionamento e dei risultati, giocano, sorridono, cancellano le foto fatte. Vogliono fotografare, ma alcuni non vogliono farsi vedere in foto. Sono ragazzi del Senegal, dell’Eritrea, del Gambia e di tanti altri paesi africani arrivati qui in situazioni disperate, subendo maltrattamenti e torture durante il viaggio. Vederli con la macchina fotografica, il nostro strumento di lavoro, ci fa come sempre una strana impressione, positiva con un senso di fiducia ben riposta. Loro sono gentili, ospitali, sorridono, ci offrono biscotti. Molto spesso non abbiamo nessuna lingua in comune per comunicare, ma si trova sempre la maniera.
Difficile spiegare a loro il senso di quello che stiamo facendo, che spesso non è ancora ben chiaro neanche a noi. Siamo spinti solo dalla voglia di cercare di far raccontare direttamente i protagonisti. Non sono più soggetti fotografici, ma fotografi di sé stessi. E allora ti accorgi sempre di più di quanto la fotografia non sia tecnica o apparire, ma un mezzo di espressione mirato a sentire e fermare quel tempo che sentiamo coincidere con noi stessi.
Alcuni ragazzi fanno ritratti tra di loro, qualcuno fotografa le nuvole, un ragazzo fotografa i disegni che fa, molti si fanno fare foto con i telefonini mentre impugnano le macchine fotografiche. Le tende sono quasi ignorate nelle loro foto. Per molti di loro è iniziato il Ramadan, non mangiano fino al tramonto e non bevono nonostante il caldo e la partitella di pallone fatta nella mattina, ma non rinunciano a scattare, a guardare e a concentrarsi fotograficamente su aspetti della loro vita allo stesso tempo ben lontani dalla loro vita, dai loro sogni e dalle loro speranze.
Nella galleria le foto scattate dai ragazzi, le foto nel corpo dell’articolo sono dei fotografi.
Un grazie a Marzia, Luna, Giorgia, Massimo, Stefano e Nando e ai volontari del Baobab per i loro e anche i nostri momenti.
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